William Kentridge racconta la fine della segregazione razziale mettendo in scena il re crapulone di Jarry.
Ubu and the Truth Commission è uno spettacolo che nasce nel 1997, esattamente un anno dopo l’istituzione della TCR (Truth and Reconciliation Commission). La TCR, voluta fortemente da Mandela, costituisce un fulgido esempio di Restorative Justice, una giustizia riconciliante fondata sul dialogo tra le parti in causa e sull’urgenza di raccontare, testimoniare, documentare le esperienze di vittime e carnefici della segregazione razziale del Sudafrica. L’abbandono del solo principio punitivo, alla base dei consueti procedimenti della corte penale internazionale, poneva l’accento sull’urgenza di storicizzare l’Apartheid, di trasformarlo da spauracchio, prodigio della crudeltà umana in qualcosa di concreto e documentabile, un “manufatto” dell’abiezione umana osservabile da più punti di vista e, dunque, pronto per essere soppesato e metabolizzato dalle coscienze di tutto il mondo.
Secondo Jane Taylor, autore del testo di Ubu and the Truth Commission, il sistema delle udienze pubbliche, favorendo una sorta di suggestiva commistione di storia e autobiografia, metteva in risalto per la prima volta la sofferenza privata del popolo africano, per troppo tempo, in passato, sacrificata ed eclissata dai più ampi progetti di liberazione di massa. Per William Kentridge, regista dello spettacolo nonché autore del cortometraggio animato che fa da sfondo alla performance vera e propria (Ubu tells the truth, 1997), la Commissione era essa stessa una sorta di teatro, un teatro civico in cui i singoli testimoni, uno alla volta, venivano alla ribalta del mondo a raccontare, in circa mezz’ora, la loro storia.
Dunque il sostrato etico e ideologico dello spettacolo di Kentridge e Taylor è davvero degno di nota. Il loro Père Ubu, un “gerarca” dell’Apartheid, grossolano e abietto, vigliacco e crapulone proprio come il personaggio di Alfred Jarry, consuma il tempo che gli resta prima di rendere testimonianza al TCR in paradossali litigi coniugali e surreali abboccamenti con i suoi teriomorfi consiglieri, questi ultimi creazioni originali della Handspring Puppet Company. Kohler e Jones, infatti, realizzano per lo spettacolo di Kentridge alcuni pupazzi manovrati a vista, l’entourage di Ubu, appunto: un grosso cane a tre teste, un coccodrillo dal corpo di valigia che all’occorrenza viene adoperato da Ubu per far sparire le prove che lo incastrano come aguzzino, un avvoltoio; inoltre, pupazzi sono anche i vari testimoni che salgono alla sbarra della TCR, durante lo spettacolo, per raccontare scampoli di realtà, frammenti di cronaca dell’Apartheid.
La scena è relativamente semplice e spoglia; sullo sfondo vi è collocato uno schermo sul quale viene fatto scorrere il film animato di Kentridge. I riferimenti letterari sono espliciti, anche se più che l’Ubu roi, che costituisce in fondo una sorta di folle parodia del Macbeth di Shakespeare, ad ispirare la vicenda narrata da Taylor v’è senz’altro l’Ubu cocu, il terzo capitolo della trilogia teatrale dedicata da Jarry alla sua paradossale creatura. Il pupazzo del cane a tre testa di nome Bruto, ad esempio, è ispirato proprio a les trois Palotins, i sadici e affamati consiglieri dell’Ubu cornuto che, come la creazione di Kohler e Jones, si esprimono anch’essi in versi.
Orbene, nella confortevole e climatizzata platea del Mercadante, o, come il sottoscritto, confinati negli ultimi ordini dei palchi in risposta ad un criterio di distribuzione dei posti-stampa di matrice senz’altro kafkiana, dovremmo poter assistere ad una macchina teatrale perfettamente oleata, un dispensatore automatico di profonde riflessioni avvolte nella carta velina delle piacevolezze patafisiche. Purtroppo non è così; lo spettacolo dopo un po’ stanca, i pupazzi non ci emozionano e non ci fanno né sognare né riflettere, sono una presenza a tratti anodina, non ci inquietano e non ci divertono; in sostanza, a ben vedere, sono privi di vita, perfino di quella vitalità che si nutre dell’assenza di ogni segno di vita e che fa del burattino l’archetipo di quel doppio perturbante con il quale il buon Hoffmann ha saputo stregare la nostra immaginazione. Gli attori, dal canto loro, si impegnano nel dare sostanza ad una trama troppo esile, sostanziata con troppa sicurezza sul ciglio della dissoluzione nonsense, il che spesso li precipita, li perde nella gratuità del lazzo.